Il cambiamento, non come un treno che ci travolge ma come un cammino da creare
La casa cantoniera non è più un luogo del passato, una traccia di storia sulla strada statale, ma un luogo del presente, che spunta come i fiori di tarassaco nelle crepe di un vecchio palazzo. Da anni vuota e inabitata, con le finestre chiuse che raccontavano di una città contraddittoria – con case senza abitanti e abitanti senza case – oggi è viva e vissuta e le finestre aperte richiamano la possibilità di cambiare l’esistente.
Il valore di Casa Bettola non si trova tanto nel confronto tra quello che era ieri e quello che è oggi, quanto nel processo che ha portato la trasformazione dello spazio. Il riuso del vecchio edificio diventa una metafora per affermare che il cambiamento non è solo quantitativo ma soprattutto qualitativo: rimane una casa cantoniera ma la sua funzione e la sua identità cambiano.
Dove ogni tanto qualcuno dormiva su un letto di giornali dopo una giornata di lavoro nero nei cantieri, oggi si trova uno Sportello per il diritto alla casa; un punto d’incontro, inchiesta e organizzazione per coloro che vivono in prima persona il problema della casa.
Dove ogni tanto un bambino scavalcava il cancello chiuso per giocare sul cortile, oggi si trova uno Spazio incontro per famiglie; un luogo di scambio e condivisione dove bambini e adulti possono creare relazioni solidali e sviluppare progetti comuni.
Oggi, passando davanti alla casa cantoniera può capitare di vedere attraverso una finestra un gruppo di donne che studiano alla Scuola di italiano e, nello stesso tempo, nella finestra di fianco, vedere famiglie del Gruppo di Acquisto Solidale che preparano cassette di frutta e verdura per la distribuzione settimanale.
Quando si passa davanti alla casa verso sera può capitare di sentire i suoni dell’Osteria Casa Bietola – cucina critica, biologica e solidale e, più tardi nella stessa sera, sentire le voci di un dibattito o di un film che provengono dall’Officina di Casa Bettola.
Spesso viviamo il cambiamento come qualcosa che ci travolge dall’esterno e non come qualcosa che possiamo creare a partire da noi stessi. I processi di cambiamento di cui siamo una parte attiva possono essere difficili da percepire, perché sono lenti e non lineari, ma innanzitutto perché non siamo abituati a coglierli. La trasformazione di un luogo abbandonato in un luogo vivo può essere un modo per rendere il cambiamento più tangibile. Da questo punto di vista l’autorecupero della casa cantoniera è un modo di sperimentare la nostra possibilità di trasformare l’esistente, di ripensare gli spazi secondo i nostri bisogni, desideri e idee, e formulare alternative comuni in contrasto alla logica del mercato che non valuta gli spazi della città secondo il loro valore d’uso ma secondo il loro valore di scambio.
In tanti luoghi della nostra contemporaneità, privati come pubblici, è difficile lasciare tracce e lo spazio difficilmente lascia tracce in noi. In altri luoghi invece, possiamo partecipare al cambiamento dello spazio e nello stesso tempo lo spazio può contribuire ad un nostro cambiamento culturale. Speriamo che Casa Bettola possa diventare uno di questi luoghi, in cui le persone che la attraversano possano essere parte attiva di un processo di cambiamento.
Non un percorso unico ma un orizzonte comune
L’idea di Casa Bettola è di cercare l’incontro e lo scambio tra diverse esperienze per superare due tendenze che ad un primo sguardo sembrano opposte, ma che insieme rispecchiano una difficoltà dei movimenti sociali: da una parte la tendenza a rimanere in piccoli gruppi che si chiudono in se stessi e dall’altra parte la tendenza a convergere in un’unica organizzazione.
Nel primo caso, le diverse esperienze diventano spesso compartimenti stagni autoreferenziali che non trovano il modo di comunicare tra loro, le idee e le pratiche rimangono marginali in mancanza di una rete dove estendersi, le iniziative sono meno incisive perché restano isolate. Nel secondo caso, le differenze tra le esperienze tendono ad essere ridotte in un pensiero, una pratica e un linguaggio, le sfumature tra diversi contesti e territori sono affrontati secondo un modello, i movimenti e la loro capacità di rinnovarsi sono sostituiti da una struttura che con il tempo tende ad essere sempre più immobile.
L’incontro e lo scambio tra diverse esperienze è anche un tentativo di trovare un’alternativa a due modalità, solo apparentemente opposte, che riflettono un’altra difficoltà dei movimenti sociali: da una parte mobilitazioni intorno a tematiche molto specifiche e locali, e dall’altra parte mobilitazioni con obiettivi molto generali e globali.
Nel primo caso, è possibile affrontare una questione in modo incisivo e approfondito, ma senza affrontare altre questioni che in realtà sono inscindibili, e intervenire sul territorio senza però far fronte alle questioni globali che in fine determinano anche la vita nel contesto locale. Nel secondo caso, è possibile formulare una critica e un’alternativa rispetto a sistemi economici, politici o culturali, ma senza affrontare le questioni specifiche che determinano le condizioni delle nostre vite, e costruire mobilitazioni internazionali senza però intervenire sul territorio, nella città o nel quartiere.
Di fronte a queste possibilità e limiti, l’incontro tra diverse esperienze in Casa Bettola vorrebbe essere un modo di mettere a confronto e condividere idee e pratiche tra persone, gruppi e movimenti impegnati in diversi campi, non per creare un percorso unico ma per aprire un orizzonte comune.
Il filo rosso del bene comune
L’idea di bene comune ha la capacità di passare oltre i confini e creare connessioni tra diversi ambiti, che altrimenti spesso rimangono divisi. È una parola che nell’ultimo anno ha riverberato dalle università alle fabbriche, dai comitati per l’acqua ai movimenti per il diritto alla casa, dalla Valle di Susa alle strade di Napoli.
Proprio per la sua capacità di collegare sfere spesso separate, come politiche ambientali e politiche sociali, il bene comune scorre come un filo rosso tra i diversi gruppi di Casa Bettola.
Chi vede il territorio e l’ambiente come un bene comune, ha la possibilità di incontrarsi con chi vede la scuola e l’educazione come un bene comune. Chi pensa alla casa e all’abitare come un bene comune, ha la possibilità di confrontarsi con chi pensa alla cultura e al sapere come bene comune. Tramite lo scambio di conoscenze, la condivisione di pratiche e la difesa dei diversi beni comuni, ci si può rafforzare in modo reciproco, e insieme si può costituire una difesa trasversale del bene comune.
Nel bene comune s’intravede la possibilità di un cambio di paradigma dopo decadi di politiche liberiste. Questa speranza a volte si manifesta nell’uso inflazionato del concetto, che rischia di diventare una parola scritta così grande che nasconde il significato e il valore nella propria ombra. Invece, lo stesso processo per definire il bene comune e come debba essere gestito può essere costituente, e l’auspicio è che Casa Bettola possa essere un luogo dove l’idea di bene comune non è solo riprodotta ma anche costruita attraverso l’esperienza vissuta e condivisa.
Oltre ad essere un luogo dove diversi percorsi in difesa dei beni comuni s’incontrano e s’intrecciano, la casa cantoniera stessa può essere un esempio di un bene comune, che potrebbe evidenziare le differenze e le analogie tra la gestione pubblica e privata, ma anche essere un esempio della ricerca di un’altra possibilità – una gestione comune.
In questo caso la gestione pubblica è rappresentata da una casa potenzialmente utilizzabile per un servizio pubblico, lasciata vuota ed inutilizzata per quasi un decennio. Più che essere stata di tutti, è stata di nessuno, o meglio: la scelta di come utilizzare la casa è rimasta tra pochi e non condivisa con il quartiere o la cittadinanza. Si potrebbe dire che è stato un bene comune gestito secondo una logica privata da un’amministrazione pubblica.
La gestione privata si può immaginare con l’ipotesi della vendita all’asta della casa cantoniera, l’abbattimento dell’edificio e l’apertura dell’ennesimo cantiere per la costruzione di nuovi palazzi. Dopo qualche anno forse anche le nuove case sarebbero vuote, perché paradossalmente non costruite solo per rispondere all’esigenza delle persone di abitare, ma soprattutto per rispondere all’esigenza del mercato di autoalimentarsi.
La gestione comune invece è rispecchiata nelle sperimentazioni di diverse persone, gruppi e associazioni che oggi vivono e rendono viva la casa tramite l’autogestione e la cooperazione sociale. Forse è proprio la ricerca che meglio definisce la gestione comune, perché non è ancora definita o definitiva, ma da costruire e coltivare insieme. Con le parole di Ugo Mattei: ”Il comune è una categoria autenticamente relazionale fatta di rapporti fra individui, comunità, contesti ed ambiente. In altri termini il comune è categoria ecologica-qualitativa e non economica-quantitativa come proprietà e sovranità statale.”
In sintesi si potrebbe dire che, in una prima fase la casa cantoniera è stata occupata per evitare la vendita dell’edificio all’asta, come esempio della difesa di un bene comune inteso come difesa di un bene pubblico contro la privatizzazione. In una seconda fase sono state attivati progetti ed iniziative nella casa, come esempio della costruzione di un bene comune inteso come ricerca di una nuova forma di gestione, una gestione comune, oltre la dicotomia pubblico e privato.
Non un luogo dove consumare un’identità alternativa ma un luogo dove produrre alternative
Le esperienze politiche e sociali spesso si dividono in percorsi che da una parte si oppongono all’esistente, e dall’altra parte cercano di costruire un’alternativa nel presente. Casa Bettola vorrebbe mettere in risalto l’importanza di unire l’uno con l’altro, la critica e il progetto, l’opposizione e l’alternativa, per affrontare la sfida contemporanea oltre le usuali forme politiche ed economiche.
Si potrebbe pensare al percorso della casa cantoniera come un esempio di quest’idea: forzare la porta di una casa abbandonata è un modo, pur nel piccolo, di esprimere il proprio dissenso al modello di sviluppo della società di oggi. Aprire le porte della casa verso la città, per dare insieme risposte ai nostri bisogni e creare proposte secondo le nostre ideeè un modo di immaginare un altro sviluppo per la società di domani.
Spesso è difficile pensare una società diversa perché quella presente è descritta come l’unica possibile. Disobbedire vuole dire non accettare questa narrazione e contestare l’idea che l’ingiustizia è inevitabile. A volte, il limite della critica è di rimanere una negazione di quello che si contesta, come un riflesso che esiste solo di fronte allo specchio, e che non si riesce a creare un immaginario nuovo al posto di quello vecchio.
È altrettanto difficile pensare una società diversa perché il pensiero stesso è definito dalla società presente. Sperimentare delle alternative vuol dire immaginare una società diversa e in parte cercare di metterla in pratica già adesso. È ancor più importante e necessario fare un esercizio di immaginazione al giorno d’oggi, perché è difficile desiderare quello che ancora non si conosce. A volte il limite più grande delle esperienze alternative è dato dalla nostra stessa immaginazione che ci colloca al di fuori, mentre ognuno di noi inevitabilmente è dentro e parte delle contraddizioni della società. Rifugiarsi al di fuori, diventa un modo per ingannarsi e proteggersi, ma più importante, di allontanarsi dalla società, e quindi allontanarsi dalla possibilità di partecipare al suo cambiamento.
In altre parole, per andare oltre il presente diventa necessario stare dentro le sue contraddizioni, dentro la crisi, e dal suo interno sia muoversi contro di essa, sia fare proposte per superarla.
In questo momento, l’economia internazionale sta di nuovo traballando e ancora una volta la crescita e lo sviluppo sono proposti come le uniche vie d’uscita dalla crisi quando paradossalmente è proprio l’economia della crescita infinita, ovvero l’economia della massima competizione e il massimo rendimento, che ha generato la crisi stessa. La crescita è presentata come risposta alle problematiche sociali, ma si traduce in un’intensificazione dello sfruttamento, sia dei lavoratori sia delle risorse naturali, con la cancellazione di diritti e tutele acquisiti dopo anni di rivendicazioni, e nello stesso tempo legittima le privatizzazioni, la vendita del patrimonio collettivo e i tagli nei servizi pubblici.
Sulla radio, quando si annunciano i movimenti altalenanti delle borse mondiali, si proclama come sono andati gli affari sulla piazza italiana, la piazza cinese, o la piazza statunitense. Diventa una triste immagine di come la piazza, metafora dell’incontro e lo scambio nella città, è sempre meno vissuta, in contrasto con una piazza della finanza, dove non c’è spazio per uno scambio di culture, conoscenze o affetti. Invece Casa Bettola vorrebbe essere proprio questo: un’agorà dove potersi incontrare e scambiare oltre il mercato. O meglio, dove immaginare un’altra economia, secondo un’altra idea di sviluppo. L’auspicio è che Casa Bettola possa essere uno dei luoghi dove discutere e condividere la possibilità di una crescita diversa rispetto a quella che ci viene proposta, per mettere in pratica un’altra economia; non per diventare un luogo dove consumare un’identità alternativa, ma un luogo dove partecipare nella produzione di alternative.
Simon Armini, Spazio incontro di Casa Bettola
questo testo è veramente bellissimo, grazie per aver riassunto così intensamente un’esperienza tanto complessa.